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Sulle rotte del guano

Bottiglie

Queste bottiglie, conservate per tanto tempo in alcune case di Camogli  sono state donate al Museo dal Cap. Ag. De Gregari, Rosa Marciani, Davide De Ferrari e Gemma Cuneo. Come abbiamo visto, il traffico del guano contò su una vasta presenza italiana e soprattutto ligure. In quest’ambito i camogliesi fecero la loro parte, pur se impegnati a maggior titolo in altre rotte, egualmente lucrose. Tra i camogliesi citati assume comunque un ruolo di rilievo l’armatore Ansaldo che, stando a questi dati,fu il maggior interessato all’impresa del guano. Il traffico del guano durò alcuni decenni e lo stesso Gropallo conclude il capitolo citando gli ultimi velieri destinati a questa attività, e soprattutto alle Ballestas e a Lobos de Tierra e de Afuera. Questi velieri furono il Regina Elena, Giacomo, Erminia, Emanuele Accade, Antonio Padre, e probabilmente ultimo in assoluto il Mae Diarmid, presente alle isole ancora nel 1914. Inutile dire che buona parte di quest’ultimo gruppo di velieri fu anch’esso armato o comandato da camogliesi. Pur non disponendo di una piùcompleta documentazione in merito, siamo riusciti ad individuare due scritti che ci consentiranno di illustrare meno vagamente il caricamento del guano. Nello scritto “ A peruvian guano island “ apparso nel volume “ The pictorial tour of the world “, un volume stampato presumibilmente nell’ultimo quartondell’800 da James Sangster di Londra, apprendiamo come, dopo aver sfruttato il deposito di guano dell’isola Ichaboe (Africa) gli inglesi abbiano volto la prora delle loro navi verso le isole Chinchas e come veniva caricato il guano nelle stesse. La descrizione offerta concorda, salvo un dettaglio non indifferente, con quella data dal Gropallo ne “ Il romanzo della vela “. Molto interessante è pure la stampina Xilografata che appare nel testo e che ci mostra la fase essenziale del caricamento.

Promontorio

Dato che lo sfruttamento del guano era monopolio dello Stato peruviano, le navi adibite a questo traffico dovevano sostare a Callao per ritirare l’autorizzazione governativa, quindi partire per le isole, dove, se il posto era libero e il tempo lo permetteva, si procedeva al carico. Le isole si presentavano come enormi scogli brulli, quasi del tutto inaccessibili, con alti strapiombi sul mare e nessuna cala ad uso di porto. In questi luoghi torridi non pioveva mai, non cresceva vegetazione e non v’era acqua. La vita doveva essere organizzata con provviste portate periodicamente da navi, ma l’accosto di queste era sempre precario perché la forte risacca rischiava di sbatterle sugli scogli. Il guano ricopriva tutto e, deposto da secoli, formava uno spesso strato, una vera miniera. Sull’orlo dello strapiombo, sfruttando le naturali fratture del terreno, si formava un vasto deposito di guano già estratto da altri punti dell’isola. Sul margine esterno di questo deposito, trattenuta da pali piantati nel guano e rafforzati con catene, vi era l’imboccatura di una manichetta di robusta tela, sufficientemente ampia di modo da far cadere il guano per gravità, fino al livello del mare. La bocca inferiore della manichetta era fissata ad una apposita boa e poteva essere strozzata per mezzo di una apposita cima. Secondo il testo inglese il corpo inferiore della manichetta era assicurato sull’albero maestro della nave sotto carico e la sua bocca passava alternativamente da una mastra di stiva all’altra in modo da caricare regolarmente la nave e di consentire al personale di stivare bene il carico ricevuto. Per compiere questa operazione la nave doveva accostarsi quanto più possibile allo strapiombo ormeggiandosi saldamente con cavi ed ancore. Secondo lo scritto del Gropallo la nave restava ancorata più al largo, mentre le barche di bordo si recavano sotto la manichetta a caricare il guano, che, una volta giunta la barca sottobordo, veniva trasbordato in stiva per mezzo di coffe. Quest’ultimo sistema, forse più sicuro per la nave, rendeva la caricazione molto più lunga, mentre il primo metodo, a detta dell’autore consentiva di caricare una nave di 7/800 tonnellate in 2 o 3 giorni. Il lavoro in stiva e a terra era svolto dai “ coolies “ cinesi, un’insieme di contadini rovinati dalla siccità, debitori insolventi, galeotti liberati e altro ancora, che avevano lasciato la Cina, allettati da promesse di facili guadagni.In realtà, già all’atto dell’imbarco su navi che poco differivano dai vascelli negrieri, questi si accorgevano dell’inganno subito. Non a caso su alcune di queste navi scoppiarono delle sanguinose rivolte che portarono all’uccisione di interi equipaggi. Ricordiamo ad esempio il caso del Perseveranza, veliero il cui maggior caratista era la Casa Figari del callao (Perù).

Nel marzo del 1867, 500 cinesi, reclutati a Macao, si rivoltarono provocando la “ scomparsa “ di 4 ufficiali e 45 marinai. Alle isole poi le condizioni di vita erano miserissime ed i “coolies “ morivano come mosche. Basti pensare che lavoravano con lunghi orari sia diurni che notturni, con un’alimentazione razionata anche per le difficoltà di approvvigionamento, e che normalmente vivevano dentro una nube incessante di polvere di guano, fonte di infezioni patogene e di malattie respiratorie. Anche per i naviganti la vita non era facile: pesava su loro la doppia rimontata di Capo Horn, il clima torrido, e il pericolo delle lnghe attese al largo con la minaccia di maremoti e tempeste. Ricordiamo ad esempio il 7 luglio 1877, quando per un improvviso gonfiarsi del mare finirono contro gli scogli 7 velieri, mentre altri 25 subirono gravi avarie. Una volta fatto il carico, le navi dopo u viaggio di circa 120/140 giorni, raggiungevano l’Inghilterra, il maggior cliente ricevitore di questa merce. E’ evidente come i velieri del guano cercassero zone di carico alternative a quelle sudamericane. La nave camogliese Fedeltà, costruita a Saint Malò come Ange Marie nel 1868, armata da Fasce e Gardella e comandata in periodi diversi da G.B. Fasce e Lorenzo Gardella, fu tra quelli. Questa nave divenne nota nell’ambiente marittimo dell’epoca per un rapporto sul caricamento del guano all’isola Browse (stretto di Torres   - Australia), presentato al console italiano di Londra dal cap. Gardella il 5 aprile 1886, e parzialmente pubblicato, su cinque pagine della “ Rivista marittima “ di quell’anno. In questo rapporto il gardella si lamenta di come gli equipaggi delle navi fossero costretti ad eseguire da loro stessi il carico del guano. Giunto all’isola il 14 giugno 1885, ancora la nave vicino un barco inglese il cui comandante cerca praticamente di dissuaderlo dal caricare, lamentando il troppo lavoro da fare in confronto al risultato. Nonostante tale quadro pessimo, il Gardella, il 18 giugno, dopo aver portato la nave in altra zona dell’isola dov’era possibile scaricare, sbarca con una parte dell’equipaggio per preparare il lavoro a terra. L’isola è di forma circolare, ampia circa un chilometro, e l’unico posto libero per cavae guano è distante 300 metri dalla piccola ferrovia attrezzata per portare il guano alla spiaggia. Oltre a questo, per poter accedere alla cava si debbono rimuovere circa 250 tonnellate di corallo spezzato, ammucchiato dalla gente arrivata prima.Questa operazione viene compiuta comunque in tre interi giorni di lavoro. Scrive il Gardella: “ ……la cava si presentava come un muro alto 7 piedi inglesi (metri 2,24 circa) formato da strati di corallo bianco e di guano. Un primo strato di corallo di circa 2 piedi e mezzo (cm. 70 circa) alla superfice, mezzo piede di guano secco e soffice, un secondo strato di corallo di circa un piede, un altro strato di guano umido di circa due piedi, quindi la roccia. Il lavoro più faticoso è la rottura della prima crosta di corallo (omissis). Il mezzo più agevole era quello di scavare sotto questa crosta (la prima NdA) lo strato di guano, e romperla poi a forza di mazza del peso di 25 libbre inglesi (kg.5,443 – NdA) (omissis). Ottenuto il primo strato di guano e franta la crosta di corallo, si rompeva col piccone il secondo stato di corallo, lo si asportava e si levava il secondo strato di guano che per essere umido bisognava allagare a parte per farlo asciugare. Insaccato quindi il guano bisognava portarlo a spalle per una distanza di 300 metri (distanza che col procedere del lavorosarebbe aumentata), caricare i sacchi sui carri della ferrovia, trascinare questi per mezzo miglio alla spiaggia, e quindi nuovamente a spalle per 40 metri di spiaggia di sabbia e corallo rotto. Quest’ultima operazione era oltre che faticosa,pur anche dolorosa per i pezzi di corallo rotto e tagliente che il mare getta con forza nelle gambe dell’uomo carico. Se si considera poi che tutto questo lavoro viene fatto sotto la sferza del sole cocente, si avrà idea della fatica che costa, e non faràmeraviglia come, lavorando con sei o sette uomini dalle 4 del mattino alle 7 della sera si arrivi a imbarcare una media di 8 tonnellate di guano.

Caricazione del guano


Anche per la squadra di bordo i guai non sono lievi, perché la risacca, se il mare è appena mosso, rischia di far affondare la lancia di bordo con carico e uomini, La stessa nave da parte sua rischia di arare con le ancore perdendosi contro la scogliera, specie nei momenti in cui il mare ingrossa, ma per fortuna, grazie ai provvedimenti presi dal Gardella, che non citiamo per brevità, tutto alla fine và per il meglio. Nel rapporto il Gardella si lamenta pure per L’atteggiamento dei capitani delle altre navi, e del manager della Compagnia Melbourne, a causa dei limiti delle cave e delle precedenze sull’uso della ferrovia, .2 ma, come egli scrive, la costanza colla quale si lavorava, senza riguardo a ore, e domeniche, che era di incoraggiamento e di esempio ai loro equipaggi, ed i favori di cui potei loro essere utile essendo meglio fornito, me li resero da ultimo amici “. Dopo 125 giorni il carico, ormai sufficiente, permette la partenza della nave, il 18 ottobre 1885 viene mandata a bordo l’ultima lancia di guano, il 19 gli attrezzi e il 20 alle 10 del mattino, la nave finalmente leva l’ancora. “ Dopo cento e sette giorni di navigazione felice – scrive ancora – arrivai a Falmouth, avendo prima toccato Cape Town per rifornirmi di provviste”. L’articolo termina avvertendo che “ secondo il capitano Gardella, l’isola Browse deve considerarsi oggi come sfruttata”. Esaminando le date dell’articolo possiamo calcolare la durata del viaggio, tra l’arrivo all’isola e l’arrivo a Falmouth, in circa 8 mesi ai quali va aggiunto un mese circa che corrisponde tra l’arrivo a Falmouth e la data del rapporto al console italiano a Londra. Per la parte precedente del viaggio e per il rientro in Italia non abbiamo documentazioni.


[i]Pubblicato sul bollettino trimestrale del Santuario La Madonna del Boschetto - Camogli
1993 n.3
1993 n.4
1994 n.1 [/i]
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Par: Pietro Berti